Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Antonio Manzo, pubblicato in "Il Mattino", 29 febbraio 2004

 


 

UN DISASTRO DIMENTICATO

 

DALL'INVIATO A BALVANO
ANTONIO MANZO

 

I corrieri della fame della plebe napoletana passarono dal sonno alla morte in una manciata di minuti. Il tempo necessario perché anche gli ultimi sbuffi delle due locomotive di testa del treno 8017, ormai paralizzate, rendessero la galleria ferroviaria di Balvano una camera a gas lunga un chilometro e novecento metri. I calanchi di Balvano erano già screziati di luna, in quella notte tra il 2 e il 3 marzo del '44, quando il treno 8017, quarantasette vagoni della bisettimanale tradotta della miseria Napoli-Potenza-Bari, si bloccò in galleria. Morirono tutti i passeggeri, asfissiati dal monossido di carbonio, senza neppure il ringhio perplesso del dolore. Morirono tutti, secondo una stima ancora indefinita, a sessant'anni dal disastro dimenticato: più di 500 persone, forse 600, napoletani e salernitani che, in cambio di un cappotto sottratto ai soldati americani, di un secchio di chiodi o di una striscia di cuoio, tornavano a casa con un po' di olio, uova, polli, formaggio delle campagne lucane, dove anche le poche ricchezze della terra non colmavano l'infinita povertà. Li chiamarono sbrigativamente contrabbandieri, perché napoletani. Erano, invece, i corrieri della fame, senza scarpe e senza biglietto del treno.

Nessuna Spoon River dei poveri ha mai raccontato le loro storie. Un disastro dimenticato con la stessa velocità con la quale ufficiali inglesi e americani intimarono di scavare tre grandi fosse comuni nel cimitero di Balvano per seppellire le centinaia di cadaveri, che non sarebbero mai stati conteggiati né fra i morti di guerra né tra quelli della pace da riconquistare. Erano i morti della miseria, da dimenticare. Da seppellire in fretta, come i giorni dell'Italia di Badoglio, sopravvissuta, stremata e distrutta. Erano anche i morti di un disastro annunciato. Da nascondere dietro un rimorso: c'era stato chi, pochi giorni prima della tragedia del marzo '44, aveva avvertito della pericolosità di quel treno bisettimanale preso d'assalto dal popolo affamato. O peggio dietro l'accusa che il Governo Badoglio, riunito a Salerno, scrisse nel verbale del 9 marzo '44: «La sciagura deve attribuirsi alla pessima qualità del carbone fornito dal Comando Militare alleato perché già si era verificato, sulla stessa tratta, un caso di morte per asfissia del personale di macchina di un treno dell'autorità alleata».

«Quando intorno alle sei del mattino del 3 marzo scendemmo dal paese e raggiungemmo la stazione per i soccorsi - ricorda oggi Vincenzo Pacella, 82 anni, all'epoca appena rientrato dal fronte - non trovammo che morti». E di fronte a quella tragedia, ricorda ancora Luigi Luccioni, un medico scrittore autore di un saggio su quel disastro, «neppure al procuratore del Re che, insieme a due medici, Arturo Lapolla e Rocco Mazzarone, voleva capire di più, fu consentito di andare avanti».

Il treno 8017 abbandona la stazione di Battipaglia intorno alle 19 del 2 marzo del 1944. È stato già preso d'assalto da centinaia di disperati di Napoli, Resina, Torre del Greco, Nocera Inferiore, Vietri sul Mare e Salerno. Altri, per sfuggire ai controlli, prendono il treno al volo nelle stazioni di Eboli e Serre-Persano. Alle 23,40 il treno lascia lo scalo di Vietri di Potenza-Romagnano e, stracarico di viaggiatori, attacca una seconda locomotiva. E sale verso Balvano. Le caldaie sono al massimo, rifornite di carbone slavo di pessima qualità. A mezzanotte il treno entra nella gola dei monti di Balvano. Nella Galleria delle Armi, in forte pendenza, si blocca. Una nube tossica invade la galleria, muoiono tutti. Riescono a fuggire solo i passeggeri che sono stipati sugli ultimi due carri merci rimasti fuori dalla galleria. «Là sono tutti morti», grida Giuseppe Venuto, il frenatore delle ferrovie che arriva a Balvano paese intorno alle cinque del mattino e lancia l'allarme. Tutti morti, il lungo elenco di una storia che il giornalista Mario Restaino ha raccontato con le ricerche, mosso «dalla pietà popolare dei napoletani nel culto dei loro morti».

Donato Grieco è il custode del cimitero di Balvano, ampliato due volte nel Novecento e dopo due tragedie: la prima, quella del treno 8017; la seconda, il terremoto del novembre '80. Lui, come tutti i balvanesi, ricorda «don Salvatore». Sì, Salvatore Avventurato che perse il padre e il fratello nella tragedia e fece costruire nel 1972 una cappella per dare sepoltura dignitosa ai poveri resti delle fosse comuni. E sistemò all'ingresso del tempietto una lapide per ricordare «509 persone, 408 uomini e 101 donne».

Un ricordo che vorrà testimoniare anche il comune di Balvano guidato da Ezio Di Carlo, primo cittadino e medico. Lui era sindaco anche nei giorni del terremoto e sa come incide sulla vita di questa gente il destino della memoria. Lo stesso che oggi riporta indietro negli anni Maria Carmela Di Stasio. La sorella, appena ventenne, salvò un passeggero del treno, un giovane salernitano. Cominciarono da quel giorno un rapporto epistolare: si innamorarono, fecero progetti di vita. Ma un giorno la corrispondenza si interruppe. Quel giovane ritornò a Balvano e al cimitero ritrovò la lapide della ragazza amata alla quale doveva la vita. «Venne da noi a casa e in lacrime ci raccontò la storia d'amore e di quelle lettere che poi ritrovammo», racconta Maria Carmela. Il giovane restò solo con le sue lacrime e ripartì.

 

Mai un'indagine, ai parenti 320mila lire

 

Gli atti di morte della tragedia di Balvano, la più grave della storia ferroviaria italiana, sono custoditi al municipio del comune lucano. Basta scorrere quegli elenchi per individuare i paesi di provenienza delle vittime: Napoli, Torre Annunziata, Torre del Greco, Resina, Siano, Cava dei Tirreni, Portici, Maiori, Vietri sul Mare, Nocera Inferiore, Corbara, Castellammare di Stabia e altri paesi dell'hinterland napoletano. Nessuna inchiesta amministrativa fu disposta all'epoca del disastro. Gli uffici provvidero a liquidare 320mila lire per ogni vittima a favore dei familiari, nei primi anni Cinquanta.